CORAZZATA ROMA
Eccellenza e abnegazione per la Patria

Capitolo VII

Ut Patria resurgat

di  DOMENICO CARRO          



L'EPILOGO PER LE FNB

Dopo l'affondamento del Roma, l'Ammiraglio di Divisione Romeo Oliva, subentrato al comando della FNB, aveva continuato a procedere verso ponente fino al termine del crepuscolo serale. Nel frattempo aveva ricevuto da Supermarina l'ordine di recarsi a Bona. Nel suo rapporto di navigazione l'ammiraglio Biancheri scrisse: "L'ordine di consegnarci al nemico ci ha stordito. … A prima impressione quest'ordine pareva ineseguibile. In ognuno dei capi si è svolta una tragedia interiore, e qualche indecisione affiorò anche nei sottoposti. Tutti abbiamo deciso di eseguire l'ordine perché ci proveniva dal Re." Non appena le navi furono occultate dall'oscurità della notte, la forza navale accostò verso sud, mettendo la prora su Bona. Poco prima dell'alba del 10 settembre, l'ammiraglio Oliva comunicò a tutte le navi i segnali da approntare, inclusi i distintivi di neutralità, invitando tutti a "mantenere contegno dignitoso e riservato nella sventura". Verso le 9 la nostra FNB si incontrò a nord di Bona con una formazione inglese, con la quale procedette poi verso Malta; nel transito essa venne salutata in mare dal generale Eisenhower e dall'ammiraglio Cunningham (Comandante in Capo delle forze navali alleate nel Mediterraneo), che - dal cacciatorpediniere inglese ove erano imbarcati - comunicò a lampi di luce il suo "rincrescimento per la perdita del Roma”.

L'11 settembre (data evidentemente infausta) si trovò temporaneamente riunito nella rada di Malta l'intero complesso delle nostre Forze Navali da Battaglia, incluse le navi giunte da Taranto con l'Ammiraglio di Divisione Alberto Da Zara, che assunse il comando di tutte le unità italiane presenti. Successivamente a queste si congiunsero altre navi, sommergibili e mezzi minori. Le nostre unità furono sottoposte ad un controllo di sicurezza da parte britannica, con misure che divennero abbastanza presto una mera formalità. Per contro i nostri comandanti mantennero sempre attive le predisposizioni per l'autoaffondamento, allo scopo di poter reagire a qualsiasi sorpresa. Il 13 settembre Italia e Vittorio Veneto, unitamente alla VII Divisione Incrociatori, si trasferirono ad Alessandria. Un mese dopo le sole corazzate imboccarono il Canale di Suez per andare alla fonda nei Laghi Amari (18 ottobre 1943), laddove dovevano rimanere internate per più di tre anni, mentre gli incrociatori furono rimpatriati per farli partecipare alle attività di cobelligeranza.

CONTRIBUTI DELLA MARINA

Un primo contributo operativo della nostra Marina nell'ambito della cobelligeranza era stato richiesto dagli Inglesi fin dal 13 settembre per rifornire di armi e munizioni le forze italiane operanti in Corsica per liberarla dai Tedeschi. I cacciatorpediniere Legionario ed Alfredo Oriani, resi disponibili dall'ammiraglio Da Zara, avevano assolto la missione concludendola il 20 settembre. Tre giorni dopo l’ammiraglio de Courten e l’ammiraglio Cunningham misero a punto un “Accordo Navale” che stabiliva le linee guida per l'impiego della flotta italiana per le esigenze del Comandante in Capo delle forze navali alleate nel Mediterraneo, salvaguardando il principio della sovranità nazionale. Fermo restando che le nostre navi avrebbero conservato la propria Bandiera e che la struttura di comando della flotta rimaneva esclusivamente nazionale, era anche prevista una certa autonomia sul piano tattico: ad esempio, le scorte dei convogli alleati da parte delle nostre navi erano poste sotto comando italiano.

Nella prima metà di ottobre tutte le navi da guerra italiane, ad eccezione delle corazzate, rientrarono a Taranto o raggiunsero le rispettive zone di operazione. Le missioni di scorta ai convogli alleati iniziarono il 4 ottobre 1943 e continuarono fino a fine guerra. Fra le altre attività svolte dalle nostre unità, ricordo, a titolo di esempio: le missioni di trasporto occulto di informatori o di materiale bellico da parte dei sommergibili; le analoghe missioni assolte dai MAS e dalle motosiluranti nei mari d'Italia; le attività di cooperazione con le forze navali angloamericane svolte dagli incrociatori Eugenio di Savoia e Montecuccoli nel Mediterraneo centrale ed orientale; le crociere contro i corsari tedeschi nell'Atlantico meridionale condotte dagli incrociatori Duca degli Abruzzi e Duca d'Aosta operanti dalla base di Freetown (Sierra Leone). Le attività svolte dalla Marina nell'ambito della cobelligeranza assommarono a circa 55.000 missioni in mare, per oltre 4.000.000 miglia percorse. Altrettanto rilevanti furono le perdite: oltre 10.000 uomini e 71 navi da guerra, per un totale di 135.000 tonnellate.

Il nostro arrivo a Taranto dalla Spagna, insieme agli altri superstiti della corazzata Roma era avvenuto il 15 luglio 1944, solo nove giorni dopo il rientro nella stessa base del Caio Duilio, l'ultima delle tre corazzate della V Divisione Navale a lasciare Malta. Questi ritorni avevano allietato tutta la Marina. Tuttavia non si era ancora attenuato lo sdegno provocato dalla notizia del rifiuto di giurare fedeltà al Re da parte del nuovo Governo (Bonomi II). In effetti, l'eccezionale prova di compattezza e disciplina mostrata dalla flotta nell'obbedire all'ordine di recarsi nei porti dell'ex-nemico si era avvalsa della fedeltà di noi tutti al giuramento dato al Re. Altrimenti, ogni comandante avrebbe potuto giudicare che quell'ordine era "ineseguibile" e optare per l'autoaffondamento. Quando il Governo sollevò la questione istituzionale, molti non poterono tollerare la sensazione di essere stati raggirati e di aver compiuto inutilmente un atto disonorevole. Vi fu anche chi giunse a togliersi la vita, come il Capitano di Fregata Carlo Fecia di Cossato, impavido combattente decorato di Medaglia d'Oro al Valore Militare.

Ma un altro gravosissimo contributo doveva ancora essere richiesto alla Marina. Il 10 febbraio 1947, giorno successivo al rientro in Patria delle corazzate Italia e Vittorio Veneto, veniva firmato a Parigi il Trattato di pace (De Gasperi lo definì un diktat), che umiliava il nostro Paese e si accaniva ferocemente sulla nostra Marina. La ratifica venne approvata dall'Assemblea Costituente a fine luglio, nonostante le fiera opposizione di Benedetto Croce e le chiare riserve espresse dal precedente Ministro della Difesa, on. Luigi Gasparotto ("Ma il colpo formidabile lo riceve, purtroppo, la Marina italiana"), e dallo stesso Ministro degli Affari Esteri, on. Carlo Sforza: "Dal punto di vista morale, talune delle disposizioni di carattere militare, in un primo luogo quelle relative alla consegna della flotta, appaiono lesive del sentimento nazionale italiano perché non tengono conto dell’importante contributo portato dalla Marina alla guerra comune contro la Germania e perché in contrasto con le reiterate promesse fatte".

VERSO LA RINASCITA

Fra le clausole militari e navali del Trattato, oltre ai vincoli sulle installazioni della Difesa nelle isole strategicamente importanti ed al divieto di dotarsi di nuove corazzate, portaerei, sommergibili, motosiluranti e determinate armi, vi era soprattutto la drastica riduzione della flotta. Come disse l'on. Gasparotto: "A guerra finita, malgrado le falcidie e gli affondamenti subiti negli scontri con il nemico, la Marina italiana era rimasta con 266.000 tonnellate e con 39.000 uomini. Il Trattato di pace ci lascia soltanto 68.500 tonnellate e 25.000 uomini." In pratica, spiegò l'on. Sforza, "la scarsezza di mezzi lasciati alla nostra Marina, oltre a non consentire un’efficace difesa delle nostre coste, non ci consente neppure una effettiva protezione del traffico marittimo costiero". Tale prospettiva finì per allarmare gli stessi Anglo-Americani, poiché i grandi mutamenti in atto negli equilibri internazionali rendevano necessario che l'Italia mantenesse una presenza navale credibile. Questo indusse Americani e Britannici a rinunciare alla loro parte nella spartizione della nostra flotta. Le corazzate Italia e Vittorio Veneto dovettero comunque essere demolite (operazione completata nel 1955).

L'evidenza del ruolo che l'Italia doveva comunque continuare a mantenere, per la sua collocazione geografica e culturale al centro del Mediterraneo, ci fece fare il primo salto di qualità: il 4 aprile 1949 l'Italia fu uno dei dodici Paesi fondatori della NATO. L'appartenenza all'Alleanza Atlantica determinò la cessazione dell'efficacia delle clausole militari, navali ed aeree del Trattato di pace: i vincoli in esso contenuti furono pertanto superati, consentendo alla Marina il faticoso recupero di una dimensione commisurata ai suoi compiti. A partire dal 1952, il comando delle forze navali della NATO nel Mediterraneo era stato assegnato all'ammiraglio britannico con sede a Malta (CINCAFMED). Negli anni seguenti, la laboriosa ed efficace presenza delle nostre navi per mare determinò un incremento del prestigio della nostra Marina, tanto che, a partire dal 5 giugno 1967, il predetto comando navale NATO a gestione britannica venne sostituito dal "Comando delle Forze Navali del Sud Europa" (COMNAVSOUTH), retto da un ammiraglio italiano, con sede a Nisida. Alla Nazione umiliata, sminuita e depredata dal diktat, era stato riconosciuto il suo naturale ruolo guida nel Mediterraneo.

EMBLEMA DELLA PATRIA

Se mi sono spinto in avanti di tanti anni dopo l'affondamento del Roma è perché, per comprendere tutto il significato di ogni storia, occorre osservarla a distanza di tempo. La sera di quel tragico 9 settembre 1943, potevo provare solo dolore e smarrimento: dolore per la perdita della nostra splendida nave e dei miei amici più cari, nonché per la tremenda ferita subita dalla Patria; smarrimento per il crollo di tutte le certezze della mattina precedente, e perché le successive ondeggianti incertezze sulla nostra destinazione avevano lasciato il posto al buio più totale. Con il trascorrere del tempo il dolore si era solo parzialmente lenito, ma allo smarrimento era subentrata la rabbia per la sciagurata situazione in cui ci aveva inopinatamente cacciato il Maresciallo Badoglio, contro ogni logica e senza la minima pianificazione militare, pur essendo egli stesso nato, cresciuto ed invecchiato nell'ambiente militare. Ed altrettanta rabbia era stata provocata dal massiccio attacco scatenato su di noi dai Tedeschi, come se noi avessimo necessariamente dovuto essere considerati il loro peggior nemico. Certo noi non avremmo mai voluto che il nostro Governo accettasse "al buio" una resa senza condizioni, quando ancora avevamo l'importante carta della FNB da giocare. Ma questo non significa che si dovesse giudicare un tradimento la volontà di cessare la guerra quando nemmeno la nostra Penisola offriva più alcuna sicurezza alla popolazione stremata. No, l'Italia non ha tradito nessuno, così come la stessa Germania, venti mesi dopo, non tradì l'alleato nipponico arrendendosi molto prima di lui. Se vi fu una dilettantesca doppiezza da parte del Governo Badoglio, questa si ripercosse solo sulle nostre forze armate, lasciate senza ordini, e sull'intero popolo italiano, vilmente abbandonato alla prepotenza straniera.

Ora, essendo trascorsi tanti anni dal periodo d'imbarco che ho avuto il privilegio di vivere a bordo della nave da battaglia Roma, non mi perdo più in sterili recriminazioni sull'infelice piega che presero certi eventi, poiché quella storia è ormai stata scritta in quei termini e non può più essere raddrizzata. La vecchia rabbia si è quindi tramutata in un più distaccato rammarico, in gran parte blandito da una constatazione estremamente confortante: il sacrificio del Roma non è stato vano. La proterva aggressione germanica è, di fatto, risultata controproducente: innanzi tutto l'occupazione della Maddalena ha impedito alla flotta di andare in quella base italiana, così privando l'ammiraglio Bergamini della sola possibile alternativa all'andata nei porti controllati dagli Anglo-Americani; successivamente, l'affondamento della corazzata Roma ha indotto la Marina a considerare sicuramente nemici gli ex-alleati ed a ritenere più accettabile la prospettiva di iniziare ad operare a fianco agli ex-nemici. L'obbedienza a quello che venne a giusto titolo definito "il più amaro degli ordini" era stata motivata sia dalla fedeltà al Re (esigenza poi dissoltasi), sia dalla necessità di contribuire alla ricostruzione della Patria. Questo contributo, la Marina - non avendo autoaffondato le navi - lo ha sicuramente dato in modo sostanzioso: col suo impegno nella cobelligeranza, che ha attenuato le clausole del Trattato di pace, rese molto meno drastiche di quelle per Germania e Giappone; con la cessione di moltissime sue navi a parziale copertura del dovuto risarcimento dei danni di guerra; con la caparbia prosecuzione del cammino intrapreso, per risollevarsi e fornire il proprio apporto alla ricollocazione dell'Italia fra le maggiori potenze dell'Europa.

In definitiva, nei confronti del Roma è giusto serbare un sentimento di profonda gratitudine oltre ad un ricordo prezioso e dolcissimo, un ricordo che non può che inorgoglirci. Questa nave, il cui arco di vita si è esteso dalla vigilia dell'entrata in guerra (data del varo) al giorno dopo l'armistizio (data dall'affondamento), ha rispecchiato tutti gli aspetti salienti dell'Italia in guerra: ha dovuto combattere su entrambi i fronti, essendo stata bombardata e colpita sia dagli Anglo-Americani (5 e 23 giugno 1943), sia dai Tedeschi dopo meno di tre mesi (9 settembre); ha avuto le stesse reazioni all'8 settembre, ovvero sollievo per le prospettive di pace e sconforto per la resa incondizionata; successivamente i suoi sopravvissuti sono stati sottoposti alla stessa lacerante scelta fra Nord e Sud. Nonostante le enormi difficoltà esistenti in quel periodo, la nave ha anche rispecchiato molte delle più pregiate qualità del popolo italiano: la sua genialità progettuale e realizzatrice, espressa nella costruzione di quella poderosa corazzata, gioiello della cantieristica navale e della tecnologia più progredita; la sua capacità di reagire ai momenti più critici, la sua umanità ed il suo spontaneo altruismo, tutte qualità chiarissimamente evidenziate dagli Ufficiali e dall'equipaggio nei vari combattimenti e nel corso del disciplinato abbandono nave, pur in un contesto in cui il pericolo estremo, evidentissimo, sollecitava soprattutto l'istinto di conservazione. Tutto questo e tanto altro continuano a farmi amare la nave da battaglia Roma come un emblema estremamente edificante della nostra bella e generosa Patria.

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